La rappresentazione mentale della pandemia da Covid-19 negli operatori sanitari e nei pazienti affetti da patologie pregresse
Alcuni psicologi, oncologi e cardiologi degli IRCCS Pavia e Montescano, durante la prima fase della pandemia, hanno somministrato a un largo campione di sanitari e pazienti ricoverati un questionario per valutare la percezione della nuova patologia e le ricadute psicologiche correlate. La ricerca, a cui hanno partecipato anche clinici del Cardiologico Monzino e ricercatori della Statale di Milano, è arrivata alla pubblicazione di un primo studio.
Mentre gli operatori sanitari combattevano la prima fase di una battaglia impari contro un nemico subdolo e invisibile che ha messo a dura prova le loro condizioni fisiche e psichiche, e mentre i tradizionali luoghi di cura perdevano rapidamente la loro connotazione di ambienti sicuri per trasformarsi, nel vissuto soggettivo, in luoghi di contagio da cui tenersi il più possibile distanti, intere schiere di pazienti non potevano scegliere di rifugiarsi tra le mura domestiche, costretti a recarsi in ospedale al fine di sottoporsi a cure che non potevano essere né rimandate né sospese.
È in questo complesso scenario che l’IRCCS Maugeri e il Centro Cardiologico Monzino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Miano, hanno deciso di studiare gli effetti psicologici della pandemia nel contesto ospedaliero, analizzando, da una parte, il vissuto del personale sanitario e, dall’altra, quello dei pazienti, osservando che in quegli stessi ospedali in cui gli operatori sanitari iniziavano a mostrare sintomi ansiosi e depressivi correlati ad un’elevata percezione del rischio di ammalarsi e ad un altrettanto elevato timore di contagiare gli altri (familiari, colleghi e pazienti), i pazienti mostravano invece, in maniera almeno apparentemente sorprendete, di sentirsi meno a rischio dei sani di poter contrarre il virus.
I due studi (di uno già pubblicato, si veda in calce, e l’altro in fase di pubblicazione), condotti in parallelo presso i due Istituti clinici, hanno coinvolto 650 operatori sanitari e un totale di 450 pazienti con patologie oncologiche, nefrologiche o cardiache pregresse confrontati con altrettanti soggetti sani sottoposti, durante il picco della prima e improvvisa ondata di COVID-19 dello scorso marzo, alla compilazione di alcuni questionari volti ad indagare il loro vissuto emotivo e cognitivo relativamente alla pandemia.
Rispetto agli operatori sanitari (medici, infermieri, altri operatori e staff amministrativo), i risultati principali hanno mostrato, soprattutto negli infermieri, un elevato rischio percepito di poter essere contagiati, accompagnato dalla paura di contagiare i colleghi, i pazienti o i familiari che ha portato più della metà di loro (56%) a mettere in atto misure protettive rispetto ai congiunti (dal cambio di domicilio all’autoisolamento tra le mura domestiche). I profondi cambiamenti avvenuti nella routine lavorativa, il rischio percepito e il coinvolgimento emotivo nella gestione dei pazienti hanno inoltre causato, fin dalle prime fasi della pandemia, un aumento significativo di ansia, depressione e distress, presenti, rispettivamente, nel 29.6%, nel 22.8%, e nel 44.9% degli operatori sanitari, ovvero in percentuali molto maggiori rispetto a quelle riscontrate nelle stesse categorie di soggetti in condizioni normali. Tra tutti gli intervistati, le donne infermiere erano quelle che mostravano una sintomatologia più marcata, plausibilmente a causa del fatto che le donne tendono, per natura, a farsi coinvolgere maggiormente dalle situazioni stressanti e perché la professione infermieristica porta ad un’inevitabile maggiore vicinanza e condivisione con il paziente rispetto a quella medica, soprattutto in una situazione in cui gli operatori sanitari si sono trovati ad offrire ai pazienti non solo il loro supporto professionale, ma anche quella vicinanza emotiva generalmente garantita dalla presenza dei parenti, ma tristemente negata loro in tempi di COVID.
Ma cosa accadeva ai pazienti che in quello stesso periodo si affidavano alle loro cure, costretti a frequentare, già fragili a causa della loro malattia, gli ospedali? Il dato principale è che i pazienti, rispetto ai sani, si ritenevano meno a rischio di poter contrarre il virus. Inoltre, minore era la percezione del rischio, minore era il distress esperito nel recarsi in ospedale per ricevere le cure necessarie. Diverse sono le possibili interpretazioni di questi dati: la prima è legata al fatto che i pazienti diano maggiore attenzione alla loro malattia pre-esistente di quanto ne diano a una malattia che potrebbero contrarre, ma che al momento si configura, appunto, solo come una probabilità piuttosto che come una realtà. Poiché il livello di attenzione che poniamo agli eventi determina anche la probabilità soggettiva che assegniamo al loro verificarsi, questo spiegherebbe la sottostima del rischio di contrarre il COVID riscontrata nei pazienti rispetto ai sani. Alternativamente, possiamo leggere questo atteggiamento come il risultato della messa in atto, da parte dei pazienti, di strategie difensive, come per esempio il diniego, utili a proseguire le terapie in corso o a non sottrarsi a consulti necessari limitando la paura del contagio e, conseguentemente, riducendo il livello di distress esperito. Non ultimo, possiamo attribuire la ridotta percezione del rischio all’effetto del ruolo protettivo e di contenimento delle paure svolto da alcuni ospedali, tra cui i due Istituti coinvolti nella ricerca che, attraverso un’oculata riorganizzazione strutturale e dei servizi, hanno favorito nei pazienti non-COVID, già fidelizzati con gli stessi, il formarsi di una rappresentazione dell’ambiente ospedaliero come di un luogo sufficientemente sicuro e affidabile a cui rivolgersi, anche grazie all’impegno di quegli operatori sanitari che, nonostante tutto, hanno continuato a farsi carico con dedizione della salute dei loro pazienti. In effetti, la ridotta percezione del rischio si è tradotta, dal punto di vista comportamentale, in una maggiore disponibilità a rivolgersi alle strutture sanitarie sia per proseguire le cure iniziate in precedenza (in particolare, i pazienti oncologici e dializzati), sia nel caso in cui avessero esperito, durante la pandemia, sintomi acuti (soprattutto nel caso dei pazienti con patologie cardiovascolari).
Da questi dati possiamo trarre due conclusioni importanti.
La prima, riferita agli operatori sanitari, è che è certamente opportuno monitorare il loro stato di salute mentale (soprattutto se donne e infermiere) fornendo loro tutti gli aiuti necessari per non soccombere e per limitare lo sviluppo di gravi patologie psichiatriche, come per esempio il burnout o il disturbo post-traumatico da stress.
La seconda è che, in una situazione di pandemia, possiamo aspettarci che i pazienti già affetti da altre patologie siano più disposti degli altri a ricorrere alle cure mediche necessarie percependo un buon grado di sicurezza rispetto ai luoghi cura. Tuttavia, poiché un’eccessiva sottostima del rischio di contagio da parte dei pazienti potrebbe rivelarsi controproducente rispetto alla messa in atto di comportamenti protettivi, è importante che essi vengano educati, ancora più della popolazione generale, a prevenire i rischi attraverso comportamenti quotidiani adeguati.
* Gorini A., Fiabane E., Sommaruga M., Barbieri S., Sottotetti F., La Rovere M.T., Tremoli E., Gabanelli P.,
Mental health and risk perception among Italian healthcare workers during the second month of the Covid-19 pandemic,
Archives of Psychiatric Nursing, Volume 34, Issue 6, 2020, 537-544.